Prendiamo a pretesto il Concerto n.3 per pianoforte e orchestra op.26 di Sergej Prokof’ev per parlarvi un po’ del pianoforte. Si sa, è uno strumento complesso, ibrido, un compromesso fra corde e percussioni, un mastodonte ingombrante, vistoso e maestoso, tanto che nell’organico dell’orchestra ce ne sta uno solo.
La sua invenzione si deve a un costruttore di cembali, consulente tecnico degli strumenti alla corte dei Medici a Firenze, Bartolomeo Cristofori, che lo mette a punto nel 1702.

Lo scopo era ottenere un suono dal volume variabile (forte e piano), facendo vibrare le corde in modo diverso rispetto al clavicembalo: non più “pizzicandole” con dei “salterelli” muniti di “penne”, ma “picchiandole” con dei martelletti collegati con un meccanismo ai tasti, in modo che la pressione e il peso delle dita potessero dosare il volume del suono.
Una rivoluzione.
Cristofori battezza il nuovo strumento “Gravicembalo col Forte e col Piano”, da cui ecco il nome fortepiano. La data ufficiale della sua nascita è però il 1711, quando se ne dà pubblico annuncio con un articolo del marchese Scipione Maffei sul Giornale dei letterati d’Italia.

Dal fortepiano al pianoforte il passo è breve. Con l’inversione del nome si perfeziona anche la macchina, e arrivano perfino dei pedali: del “forte” e del “piano”, che vengono brevettati dal costruttore inglese Joan Broadwood nel 1783, e che rendono il suono ancora più ampio e duraturo. È una modifica apprezzata subito dai musicisti dell’epoca, Beethoven per esempio ha un Broadwood. Anche le composizioni musicali cominciano a dar conto di queste indicazioni pedalistiche: insomma, ora si suona anche coi piedi.
È in questi anni, tra la fine del ‘700 e i primi ‘800, ben prima di diventare lo strumento dal suono puro e potente approntato da Steinway & Sons, che il pianoforte è già l’oggetto del desiderio di nobili e borghesi, immancabile nei salotti, pronto al diletto di famiglie e ospiti in concerti domestici d’ogni genere. Fioriscono le composizioni adatte a questo svago: canzoni, sonatine, danze, e il mercato editoriale ne accompagna la diffusione con spartiti che si vendono come il pane.

Di questo genere di concerti casalinghi ne parla più volte Jane Austen nei suoi romanzi. Molte sue eroine suonano il piano, dimostrando di possedere “un’educazione”, cioè la padronanza e il dominio dello strumento, e per conseguenza, il dominio di sé: qualità all’epoca fra le più ricercate in una giovane sposa.
In Orgoglio e pregiudizio, ad esempio, Elizabeth Bennet muove agilmente le dita sui tasti mentre Mr. Darcy si avvicina, “dirigendosi con la sua consueta decisione verso il pianoforte”, collocandosi “in modo da dominare in pieno lo spettacolo della graziosa pianista e finalmente” rivolgerle la parola.
Può sembrare una banale scena romantica, ma in realtà la Austen ci dice che il pianoforte aveva un vero e proprio ruolo sociale: danza, intrattenimento, riunione collettiva, momento di possibile intimità, tutto accadeva intorno a questo strumento.
E oggi? È ancora così.

“E dove c’è un piano
Paolo Conte Aguaplano 1987
Intorno c’è sempre gente che fa baccano
Ci sono occhi che si cercano
Ci sono labbra che si guardano”