Un musicista si fa macchinista per colpa di Beethoven (e meno male!). Alzarsi presto per dare corpo e immagini ad un’idea, per scoprire la terza dimensione del teatro. L’insolita esperienza della nostra prima viola Stefano Zanobini. Da leggere, e da vedere.
I pochi neuroni attivatisi alle 6:03 non riuscivano ancora a mettere a fuoco l’assonnata faccia davanti allo specchio del bagno ma già si coaugulavano su un preciso concetto: “tutta colpa di Beethoven”.
Si sa. Per un musicista abituato a dare il meglio di sé tra le nove e la mezzanotte, le sei di mattina è un orario che semplicemente non esiste sul quadrante di un orologio. Quindi l’esperienza delle sei viene vissuta come una specie di sogno preferibilmente non realizzabile.
Un quarto d’ora più tardi, mentre ero in viaggio, il mio cervello era decisamente più attivo, ma l’idea di fondo non era scomparsa, bensì addirittura elaborata. Come rifiutare? La casa discografica NovAntiqua che propone, il Teatro Verdi che si mette a disposizione, ma soprattutto quel benedetto movimento lento del Trio d’archi op.9 n.2 di Beethoven (eh, infatti! Tutta colpa di Beethoven!) che assieme a Franziska e Augusto, doppi compagni dell’ORT e dell’Ensemble Alraune, avevamo conosciuto, accarezzato e fatto nostro in tutta la sua magnifica fisionomia. Come rifiutare l’opportunità di presentare la nostra interpretazione di questo brano in una registrazione autogestita? Impossibile.

Però nella parolina autogestita si nascondeva tutta una serie di attività, certamente molto interessanti e appassionanti per una persona mediamente curiosa, ma pure necessitanti di tanto tempo: posizionamento dei microfoni, preparazione di scheda audio e impianto di registrazione, scelta di inquadratura delle tre videocamere, allestimento del palco… Insomma, per farla breve, farsi aprire il teatro alle 7:30!
Ma sapete che mi tocca dire, ora che quest’avventura è finita? Grazie Beethoven!
Si, difatti se non ci fosse stata quest’occasione, non avrei mai vissuto l’esperienza di un teatro a me sconosciuto e non mi sarebbe mai passato per la mente il ragionamento che testé condivido.
Lo spettatore, quando entra a teatro, viene immerso in un luogo di incontro. L’odore del caffè del bar in foyer, le maschere che indirizzano le persone di qua e di là, le facce conosciute, il vicino di poltrona e poi, quando le luci in platea vengono spente, l’attrazione religiosa, intima e personale verso attori o musicisti, ma anche momenti di condivisione collettiva, come una risata o un applauso.
Il musicista conosce e condividere lo stesso teatro: anche per il musicista nel momento del concerto il teatro è esaltante luogo di incontro in cui egli può tentare di trasmettere le passioni insite nelle partiture. Ma il musicista conosce anche un’altra dimensione del teatro, sconosciuto al pubblico. È quella dello studio. Nei giorni di prova i musicisti entrano in un teatro accogliente ma discreto, si appropriano del palcoscenico per snocciolare le note, per ritrovare l’affiatamento, per conoscere altri segreti della musica che appare come un pozzo senza fondo. È una dimensione più dimessa, quotidiana, sicuramente meno affascinante di quella ben nota al pubblico, benché fondamentale per la riuscita dello spettacolo.

Ebbene, ho scoperto che esiste una terza dimensione del teatro. Non la conoscevo. Mi viene da dire che è la terza dimensione del teatro, quella vissuta soltanto dai tecnici che ci lavorano.Questa dimensione si manifesta quando si apre il teatro in solitudine, alle 7:30 di mattina. Ecco che il teatro si presenta enorme, ancor più grande che in altre situazioni, silenzioso e magicamente dormiente. Io, piccolo musicista, anzi no, piccolo macchinista-per-un-giorno, che faccio finalmente conoscenza con un silenzio carico di profondità, io che sento respirare pacatamente questo gigante, io che leggo i suoi sogni ricamati su tragedie di Shakespeare o melodrammi di Verdi, io che capisco finalmente la grandiosità del teatro per noi esseri umani e che colgo il vero perché del fare musica. Un evocativo teatro vuoto e silenzioso è la terza dimensione del teatro, quella conosciuta soltanto ai tecnici.
Morale della favola: mentre registravamo l’esecuzione che è possibile ascoltare nel video su youtube qua sotto, una manciata di neuroni, quella che riusciva momentaneamente a scollegarsi dal mio corpo impegnato nella traduzione acustica delle elucubrazioni e delle visioni interpretative emerse durante le prove in trio, stava ringraziando doppiamente Beethoven: per la sua bellissima musica e per questo suo scherzetto che mi ha fatto conoscere un lato del mio mondo, quello dello spettacolo, che finora ignoravo.