Il clarinetto è lo strumento che più probabilmente somiglia alla voce umana. Con il suo timbro duttile è capace di spaziare dalle noti più gravi a quelle più acute, mantenendo sempre un’estrema eleganza. Vogliamo raccontarvi così la sua storia che lo ha reso oggi quello che alcuni definiscono “lo strumento più bello dell’orchestra”.
Avete presente il suono vellutato che accompagna l’incedere del Gatto in Pierino e il lupo di Prokof’ev? O la voce che risponde ai corni nel Valzer dei fiori di Čajkovskij? E quell’inizio folgorante di Rhapsody in Blue di Gershwin, con quel trillo basso che sale glissando per due ottave e mezzo fino all’acuto, come e meglio della voce umana? Oppure pensate al tema più soave ed etereo che Mozart abbia mai scritto per uno strumento solista, le note lunghe sfumano una dentro l’altra, struggenti. E i virtuosismi indiavolati e graffianti tipici dell’era dello swing? E poi, è l’unico che nelle bande e filarmoniche d’Italia spodesta i violini, prendendone il posto.
Avete indovinato, stiamo parlando del clarinetto, che alcuni ritengono lo strumento più bello dell’orchestra.

È così versatile che può emettere note profonde, scure come l’abisso, e raggiungere le sopracute vicine allo strido; ma può anche modulare il suono in pianissimi che sembrano spengersi nel nulla. Grazie a un virtuoso come Alessandro Carbonare, che interpreta con l’ORT il Concerto n.1 op.73 di Carl Maria von Weber, è possibile apprezzare pienamente le doti tecniche e l’incredibile duttilità timbrica di questo strumento.
La sua nascita risale alla prima metà del Settecento, come modifica del barocco chalumeau: uno strumento a fiato in legno cilindrico, con imboccatura a becco su cui poggia una sottile linguetta di canna (ancia). Lo chalumeau aveva qualche problema a tenere l’intonazione e un’estensione piuttosto ridotta, perciò i fabbricanti dell’epoca si ingegnano a migliorarlo. Tradizionalmente si fa risalire l’invenzione del clarinetto a Johann Christoph Denner a Norimberga, che cambia la posizione dei “buchi”, diminuisce il diametro del tubo e piazza una “chiave”, cioè un congegno azionato dalle dita, che apre o tiene chiusi alcuni dei fori. Per il nome ci si ispira al clarino, il registro acuto della tromba, perché “sentito a distanza, esso suona piuttosto come una tromba”, come scrive nel 1732 Johann Gottfried Walther nel Musicalisches Lexicon, che lo battezza definitivamente col diminutivo clarinetto.

Nell’Ottocento a Parigi si fa a gara a rendere questo strumento sempre più performante. Il clarinettista Iwan Müller propone di lavorare sulla meccanica aggiungendo altre chiavi, e di far aderire meglio i tamponi che chiudono i fori grazie a cuoio e feltro. Ma è il musicista Hyacinthe Klosé ad avere l’idea geniale: adattare al clarinetto di Müller il cosiddetto “sistema Böhm” di “chiavi ad anello”, già usato per il flauto: così la pressione del dito, grazie a un anello metallico che circonda il foro, agisce anche su altre aperture. Klosé si rivolge al costruttore Auguste Buffet, che realizza nel 1839 il clarinetto a tredici chiavi, modello di tutti i clarinetti moderni.
E chissà se con tutte queste chiavi, il clarinetto di Carbonare sia in grado di aprire le porte della vostra percezione uditiva.
Forse, le spalanca.
“Se suoni il violino e non ascolti allo stesso tempo il clarinetto non si può far musica“
Daniel Barenboim-intervista al Corriere della Sera, 16 gennaio 2007