Classe ’88, totalmente autodidatta e grande sperimentatore. Per Jamesboy conta di più l’anima che la tecnica e questo l’ha portato a farsi conoscere nella scena toscana con una grande varietà di soggetti. Nel 2016 il Teatro Verdi ha ospitato una sua mostra.
Jamesboy comincia a fare graffiti verso i 13 anni a Lima (Perù). Succede quasi per caso: vede un suo amico che fa delle firme sui muri e, incuriosito da questo gesto, inizia a sperimentare con gessetti e marker. Anche se la tendenza dominante era il mondo del Reaggeton, James non si fa intimorire e gira da solo per la città a fare firme, tanto che sarà proprio lui a trascinare altri amici in strada alla scoperta di quell’immenso mondo che è la street art.

Si trasferisce in Italia verso i 15 anni. La prima casa è nelle campagne del Chianti, non c’è praticamente niente e per un ragazzo che veniva da una città di undici milioni di abitanti non deve essere stato facile. “Andavo a scuola a Siena in un istituto tecnico, ancora nemmeno sapevo l’italiano, ma comunque firmavo nei pullman e a scuola. Non avendo concorrenza, non mi ci è voluto niente per affermarmi. Poi ho iniziato a fare le prime ricerche su internet sui graffiti, mi sono comprato un enorme libro, Graffiti World, per conoscere la scena Italiana ed Europea e iniziare a scoprire davvero questo mondo così variegato.”

Come spesso succede, inizia con le tag e poi arriva il figurativo. Dopo tante lettere, linee piatte e colori accesi inizia lo studio sull’anatomia umana: facce, mani, pose e movimenti. Il linguaggio del corpo è una cosa che nel mondo dei graffiti non si vede spesso, ma Jamesboy è uno che non segue correnti, non ha particolari influenze esterne e non ha fatto scuole d’arte. Anche per questo nel suo lavoro c’è molta sperimentazione e molti soggetti diversi tra loro: dal fumettistico paio di ali con aureola che permette ai passanti di diventare santi alla riconoscibile maschera che ripetutamente fa capolino sui suoi muri.

Molto del suo lavoro è sicuramente figlio di una grande osservazione, anche perché nella vita ha fatto davvero di tutto: vendemmie, raccolta di olive, addetto alle pulizie, autista, collaboratore domestico e ha pure lavorato in una fattoria. Questo gli ha insegnato a guardare, a dipingere dal vivo e a trovare ovunque qualcosa di importante.

“Io dipingo perché mi piace dipingere, è quello che amo e che mi fa stare bene. Non dipingo con l’idea di fare arte, spesso le mie opere le abbandono o le lascio a casa di amici. I miei non sono graffiti classici perché nessuno mi ha insegnato, ho trovato da solo la mia strada, ma frequentando l’ambiente ho imparato tante cose. Non aver fatto una scuola dell’arte magari mi ha creato delle lacune tecniche, che però puoi sempre colmare. Io metto al primo posto l’anima e quella all’accademia non te la insegnano. Vedo tanto artisti bravissimi che si dedicano molto alla parte tecnica lasciando indietro la parte più umana e questo è un peccato”.

Pian piano questa passione si è trasformata in qualcosa di serio. Oggi fa anche lavori su commissione per aziende e istituzioni, ma già nel 2016 il nostro Teatro Verdi ospitava una sua mostra. In collaborazione con l’ORT è stata organizzata un’esposizione dal titolo Canela y Miel, una serie di poster che raccontano di legami, natura, ospitalità e connessioni umane. Alla fine del mese di esposizione le opere sono tornate a casa: in strada.