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  • Restaurare senza cancellare



    L’antica pratica del restauro ha sempre cancellato le lesioni per riportare a nuovo l’opera d’arte. La tecnica moderna, però inverte la rotta: si mostrano le lacune per testimoniare il passaggio dell’opera nel tempo. È proprio a questa pratica che Berio si ispirò per comporre Rendering.

    Al Museo Archeologico di Firenze si trova la Chimera, la splendida statua etrusca in bronzo che raffigura l’animale mitologico. Di questo capolavoro si nota la criniera leonina appena scarmigliata a destra, quasi a sottolineare l’apertura improvvisa delle fauci pronte per l’attacco; e sul dorso della creatura, la testa di capro, che sul collo ha una ferita mortale dalla quale zampillano gocce di sangue. Ma le zampe sul lato sinistro mostrano un’attaccatura, infatti sono state ricomposte in un secondo momento con una diversa colata. Anche la coda a forma di serpente è stata attaccata molto dopo (1785), e non è quella originale, perché è stata montata in modo da mordere uno dei corni del capro, invece che lasciata saettare in avanti minacciosa, come probabilmente doveva essere.
    Questo antico bronzo etrusco, dunque, non è proprio del tutto antico e non è nemmeno del tutto etrusco. Ci troviamo di fronte a un falso? Sì e no. La risposta sta nel modo in cui in passato veniva concepito il restauro.

    La Chimera di Arezzo-Museo Archeologico Nazionale di Firenze


    Riportare l’opera “all’antico splendore”, aggiustare le lesioni con vere e proprie rifaciture per ripristinare l’interezza, per eliminare con cura ogni differenza fra vecchio e nuovo: era così che si restaurava prima; ed ecco spiegati i piedi rifatti, le code attaccate secondo i gusti del Granduca e le ridipinture di tavole e tele di ogni epoca. Poi, Cesare Brandi, storico direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, porta la teoria del restauro in una nuova direzione: le lacune e le rotture non vanno più nascoste, perché testimoniano il passaggio dell’opera d’arte nel tempo, ne raccontano la vita; l’integrazione, anzi, si deve notare, per non cancellare l’evento che ha causato quella lacuna, e non creare un falso storico. Nella basilica di Santa Croce, sulla parete nord della sagrestia, appeso in alto, c’è il Crocifisso di Cimabue. Del volto di questo Cristo dolente si legge solo un occhio chiuso, il labbro inferiore, il mento con un po’ di barba, e una ciocca di capelli che ricade sulla spalla sinistra, il resto è deturpato. Anche la superficie pittorica del torso è parziale: s’intravede lo sterno ossuto e si riconosce il ventre, ma del sottilissimo perizoma annodato che aveva incantato per la sua finezza, resta poco.

    CimabueVergine e San Giovanni Evangelista dolenti, particolare del Crocifisso, prima del 1288. Basilica di Santa Croce

    Quest’opera è stata devastata dall’alluvione di Firenze del 1966, e il suo restauro è stato oggetto di una riflessione metodologica: integrare la pittura persa rifacendosi alle fotografie, e realizzare un falso, o lasciare quanto rimasto, lacune incluse, ricordando per sempre il disastro subìto? Il Crocifisso viene restaurato con la tecnica dell’astrazione cromatica: le lacune sono ben visibili ma trattate con colori che si intonano a quelli dell’opera, assumendo così un valore di collegamento fra i frammenti esistenti. Le parti superstiti entrano in relazione tra loro proprio grazie a questa zona neutra che in realtà ricompone l’armonia generale, e chi ammira quest’opera oggi, viene a conoscere anche la sua storia.

    Il Crocifisso di Cimabue dopo l’alluvione del 1966


    Forse questo lungo racconto sul restauro, le opere d’arte, le lacune, le integrazioni visibili e l’astrazione cromatica vi tornerà in mente fra poco, durante l’ascolto di Rendering di Luciano Berio.
    O forse no.
    A ogni modo, godetevi l’ultimo concerto della stagione dell’ORT.

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