Tra i molteplici compositori che hanno tentato di raggiungere la vetta dopo Beethoven, solo uno è riuscito a vincere la grande paura arrivando a toccare la nona, portando la grandiosità del fatidico numero a rivestire quasi i panni di una commedia satirica.
In una vecchia registrazione video della Sinfonia n.9 op.70 di Dimitri Šostakovič con la Wiener Philharmoniker (1985), Leonard Bernstein aggiunge, prima dell’esecuzione, un’introduzione delle sue, illuminante, in cui racconta di come nella storia delle sinfonie ci sia stata una specie di “mistica della nona”; infatti, pare che, dopo il capolavoro di Beethoven, per quasi centocinquant’anni, i compositori abbiano avuto troppo timore e molti intoppi per arrivare a nove. Schubert scrive una nona magnifica, ma lui non sa che numero sia, le scrive tutte di getto, una di seguito all’altra, e i numeri sono stati dati solo dopo la sua morte, quando sono state eseguite. Schumann e Brahms non superano la quarta. Bruckner lascia la sua nona incompiuta. Mahler s’inventa uno stratagemma, intitolandola “ciclo di canzoni” (Das Lied von der Erde), e chiamando “nona” quella che di fatto è la sua decima sinfonia. Nessuno osa misurarsi con la fatidica numero nove. Nessuno, tranne Šostakovič.

Nel 1945, Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno appena sconfitto il male. È l’occasione per scrivere una super sinfonia, una nona maestosa che celebri questa vittoria, e Šostakovič, l’autore della “Sinfonia di Leningrado”, pare il più adatto a comporla. Il lavoro gli viene commissionato da Stalin in persona. E lui che fa? Nel primo movimento presenta la più sorprendente delle “none”, solenne come un pulcino appena uscito dall’uovo che fa “cip!”. Veloce, divertente, una festa allegra e circense, una dichiarazione d’intenti che si fa beffe della “mistica della nona”, e probabilmente anche di Stalin.
La prima regola della scrittura comica? Far vedere quanto sono ridicole le regole. Scrivere audacemente di norme stabilite e infrante, muovendo il pubblico al riso. Ed ecco la commedia satirica, che ci porta a ridere dei potenti.
Ma c’è dell’altro.

Immaginate la vostra vita senza il miles gloriosus creato da Plauto, il soldato fanfarone che si crede un Achille, la cui spada spasima per far polpette dei nemici, e che alla fine viene burlato e bastonato. È probabilmente il primo antieroe di una serie lunghissima, che dalla commedia latina passa per il Capitan Fracassa della commedia dell’arte, per arrivare al Brancaleone (“da Norcia!”) di Vittorio Gassman, a Rat-Man di Leo Ortolani, ad Enzo Ceccotti/Claudio Santamaria di Lo chiamavano Jeeg Robot. Secondo il critico letterario Northrop Frye, la figura dell’antieroe incarna la discesa dei temi aristocratici e cavallereschi verso il basso “democratico urbano”, spostando la letteratura dall’epico, all’ironico. Vale a dire che i protagonisti dei racconti non sono più degli eroi inscalfibili, ma Checco Zalone, Woody Allen, Zerocalcare, figure deboli, incerte della propria identità e ambigue:
dei simpatici o detestabili cialtroni in cui siamo costretti a immedesimarci, e che con la risata mettono a nudo i nostri difetti e le nostre debolezze. Potenza dell’umorismo e della commedia. Chissà se Stalin quando ha ascoltato la nona di Šostakovič ha riso.
“Sai dove ti trovi?”
Mi guardo intorno. Per chilometri e chilometri c’è solo il nulla.
“In Molise!”
Rat-Man