Best-seller settecentesco del famoso scrittore Cesare Beccaria, e che non a caso oggi ci porta al concerto in onore della Festa della Toscana.
È la primavera del 1764, e Giuseppe Aubert, della stamperia Coltellini di Livorno, ha appena ricevuto un manoscritto da Milano. Ancora non sa di avere per le mani il best-seller del Settecento: subito dopo la prima edizione ci vogliono altre copie, e altre ancora. In pochi anni quel testo viene stampato e ristampato così tante volte da creare una selva inestricabile di edizioni simili e diverse, che hanno fatto la felicità degli storici e dei filologi d’oggi. È un libello che all’epoca è finito in mano a intellettuali, borghesi, aristocratici e regnanti di tutta Europa, e che non a caso oggi ci porta al concerto in onore della Festa della Toscana.
Stiamo parlando di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Come mai tutti lo volevano leggere? Che idee proponeva, da scatenare commenti, giudizi, lettere, articoli, prese di posizione? In un mondo in cui, come nel Settecento, è perfettamente normale condannare a morte un reo, perché si è sempre fatto così, ed è stabilito da leggi antichissime, anzi millenarie, Beccaria rifiuta con forza e passione questa tradizione giuridica che definisce addirittura “scolo de’ secoli più barbari”, per cambiare rotta, eliminando gli interessi e i privilegi dei pochi in nome dei diritti di tutti, giungendo così alla “massima felicità divisa nel maggior numero”.

L’illustrazione sottostante è l’antiporta dell’edizione “terza” del 1765, cioè la pagina che si incontra prima del frontespizio, e che di solito raffigura un’allegoria. È lo stesso Beccaria, in una lettera al buon Aubert, a dare precise indicazioni di cosa debba contenere quest’immagine, realizzata poi dall’incisore Giovanni Lapi. Beccaria scrive che deve essere ritratto un “manigoldo” con in mano una sciabola abbassata, il quale “coll’altra mano terrà per la ciocca de’ capegli due o tre teste recise e grondanti”. Il dettaglio è raccapricciante, ma efficace ai fini dell’allegoria. Questo “manigoldo”, che in questo caso ha preso il ruolo del boia, porge le teste mozze e sanguinanti a una figura femminile posta al centro, che rappresenta la Giustizia, “la quale, col destro braccio teso, in atto quasi di respingere il manigoldo, e colla sinistra mano, quasi nascondendo per orrore il suo volto dal medesimo, si rivolge e guarda la sua bilancia”.
È una Giustizia senza spada, che non a caso adesso è in mano all’altro personaggio, il boia. Una Giustizia che rifiuta il terribile pegno che le viene offerto, cioè la morte dei tre rei, e che rivolge invece un gesto verso l’altro suo attributo, la bilancia, simbolicamente poggiata a terra, “sopra un fascio di vari stromenti di lavoro, come sarebbero zappe, badili, seghe e martelli pittorescamente intralciate ed avviluppate di catene con manette all’estremità”. L’idea è quella di eliminare la pena di morte e di sostituirla invece col lavoro forzato. Ecco perché la bilancia pende dalla parte di catene e manette, vanga, sega e martello, contro le teste tagliate, e la sciabola.

Chissà se quest’immagine ha avuto una qualche parte nel muovere Pietro Leopoldo di Lorena verso quella innovativa, incredibile, stupefacente Riforma Penale, che per la prima volta al mondo abolisce la pena di morte e la tortura nel Granducato di Toscana. Era il 30 novembre 1786. Praticamente oggi.
“C’era un sacchetto nero di seta da mettergli sulla testa. (…) Il cappuccio era per loro, ma io ho sempre pensato che in realtà fosse per noi, per impedirci di vedere l’orribile marea di sgomento che sale nei loro occhi quando cominciano a capire che moriranno con le ginocchia piegate “
Stephen King da Il miglio verde