Il viaggio in Italia ha radici lontanissime. Questa idea innovativa del “giro” presto divenne una moda e ad esso venne assegnata anche una dicitura internazionale: il cosiddetto Grand Tour. Cosa spingeva i rampolli di tutta l’Europa a intraprendere questa impresa? Da un lato il sapere e la conoscenza e dall’altro il piacere dell’evasione, il puro divertimento.
Siamo nel 1830, Felix Mendelssohn-Bartoldy ha 21 anni e ha appena iniziato il Grand Tour. “Finalmente in Italia! Vi ho sempre pensato come a una delle gioie più grandi della mia vita, da quando ho la facoltà di intendere. Ora questa meravigliosa avventura è incominciata e io la sto vivendo”, scrive Felix alla famiglia in quell’anno. Il “tour”, era un viaggio nel Bel Paese, fra il sentimentale, lo spirituale e il mondano, e per chi lo intraprendeva, come il ventenne Felix, era qualcosa di entusiasmante. Lo sappiamo, appunto, dalle lettere che egli scrive dall’Italia, dai taccuini pieni di schizzi e acquerelli, e dalla Sinfonia n.4 op 90 “Italiana”, ricca di suggestioni assorbite durante il suo soggiorno napoletano: “Io abito qui a Santa Lucia come in paradiso, perché davanti a me ho il Vesuvio, i monti fino a Castellamare e il golfo”.

Ma cos’era esattamente il Grand Tour? Come ci spiega Marco D’Eramo (Il selfie del mondo, 2017), si usava prescrivere un viaggio di piacere e di formazione ai giovani nobili d’Europa fin dalla fine del Cinquecento. Era un modo per entrare in contatto con le altre corti, impararne la lingua, stabilire relazioni diplomatiche, e ottenere accesso alla classe sociale dominante.
Nel Settecento, il Grand Tour è già sinonimo di “viaggio in Italia”, ed è diventato un dovere per le famiglie agiate, un vero rito di passaggio per i figli, accompagnati da un tutore, o chaperon, con tappe obbligate a Venezia, Firenze, Roma, e Napoli. Solo entrando in contatto diretto con l’arte del mondo classico e del Rinascimento, con “la grande bellezza”, i nobili rampolli possono ricevere un’educazione adeguata.
È una pratica talmente consolidata e diffusa, che diventa tema di un agguerrito dibattito fra filosofi e letterati anglosassoni del tempo. Adam Smith in Wealth of Nations (1776) ne dice peste e corna: “Il giovane (…) di solito torna a casa più presuntuoso, più scostumato, più dissoluto (…) di quanto sarebbe potuto diventare in così breve tempo se fosse rimasto a casa”. Samuel Dr Johnson invece dice che chi non ha visto l’Italia si trova sempre in uno stato di inferiorità. Non siete mai stati a Firenze? Non conoscete il Botticelli? I membri dell’alta società non possono correre il rischio di rispondere “no” a queste domande. Né subire l’onta di non avere nel proprio bagaglio
il Grand Tour. Chi non l’ha fatto, è considerato un poveraccio: sia culturalmente, perché non è stato “esposto alla bellezza”, sia economicamente, perché questo “tour” dura mesi, se non anni, ed è ovviamente costosissimo.
Un viaggio lussuoso, esclusivo, verso un luogo unico al mondo, che può far provare “quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti e i sentimenti appassionati”, come scrive Stendhal, a proposito della sua “sindrome”, provata a Firenze in Santa Croce. E pensare
che tutto questo è all’origine del turismo di massa che conosciamo oggi, in cui la “villeggiatura” si è trasformata nelle “ferie”…

“Le persone non fanno viaggi. Sono i viaggi che fanno le persone.”
John Steinbeck Viaggi con Charley